“Il viaggio e l’ardimento”, un libro di Vittorio Robiati Bendaud, di Micol De Pas, «JoyMag», 26 marzo 2021.
Storie delle Marche quattrocentesche e di quelle di oggi
Estellina Conat aprì una stamperia insieme al marito nel 1472 a Mantova. Insieme, uniti da un’intesa formidabile e da un amore intenso quanto il loro lavoro con i caratteri mobili, pubblicavano testi di grandi rabbini, studiosi e commentatori e lei, bella quanto determinata, selezionava le opere cui dedicare le sue fatiche, controllava i testi e stava al torchio con una sapienza sopraffina, che si combinava a uno studio approfondito e appassionato. Non era certo usuale all’epoca vedere una presenza femminile in un luogo simile, tanto che Messer Leon, alias Yehudah ben Yehiél, dottissimo medico e rabbino che si rivolge alla coppia Conat per opporsi alla divulgazione di un’opera discussa e contestata di Levì ben Gershon, non si esime, secondo il racconto, dal commentare tanto impegno nel lavoro di stampatrice – studiosa della signora. Non usa parole delicate, ma denotano lo stupore incontrollato dello studioso nel vedere tanto ardore nello studio e nella correzione delle pagine fresche di stampa da parte della moglie di Avraham Conat, cui dice: “Vostra moglie si occupa anche di cucina con tanta solerzia?”. La risposta è prontissima: “E vostra eccellenza sa che la buona educazione precede sempre l’apprendimento e lo studio della Torah?”.
La storia di Estellina è quella della prima donna stampatrice ebrea, ma è anche una storia d’amore profonda e commovente nel contesto di un’Italia ebraica in grande fermento culturale. A raccontarla, insieme ad altre otto vicende, è Vittorio Robiati Bendaud nel suo Il viaggio e l’ardimento (LiberiLibri), una meravigliosa passeggiata nelle Marche che inizia nel 1400 (e non si è ancora conclusa), tra storie ardimentose quanto rivoluzionarie e viaggi di dottissimi medici e sapienti. Il risultato è un piccolo libro prezioso, denso di vita e di storia. A cominciare dalla lingua che Robiati Bendaud offre al lettore. In un attimo infatti si precipita in un passato al gusto di Boccaccio, per immergersi in atmosfere che ci aspetteremmo di trovare nelle novelle Yiddish, portati per mano da uno scrittore pronto ad aprire il sipario su un presente lontano. “Ho cercato di adottare un linguaggio da cassapanca, intesa come luogo in cui si può trovare il libro che svela quelle storie. Più si va avanti nei racconti e più aumenta la distanza con questo linguaggio perché le epoche si avvicinano a noi: l’ultimo è ambientato negli anni 50 del secolo scorso”, spiega l’autore. In effetti il primo, Le peregrinazioni di Manoello e il dolce stil novo, ha a che fare con quello stile dolce, con qualche pennellata boccaccesca, tra ironia e note erotiche in un contesto estremamente colto. “Lo stil novo si muove tra l’idea della donna angelicata e Cecco Angiolieri, che usa quel tipo di poesia per ribaltarla”, continua Robiati Bendaud, “Ma gli autori ebrei dal 10° al 15° secolo vantano grandi poeti liturgici che nel loro repertorio hanno sia la poesia teologica sia quella del divano erotico. C’è una teoria ebraica dell’amore che dal Cantico dei Cantici si esprime in forma di poesia. Gli autori scelgono la metrica araba oppure quella della poesia Italiana, con il sonetto e l’endecasillabo, per parlare di amore e di erotismo, come pure di teologia e mistica. Sono opere interessantissime della produzione spirituale e culturale ebraica, di cui spesso ci si dimentica dell’esistenza”. Manoello da Roma, col nome proprio di Immanuel o come molti avevano preso a chiamarlo, Manoello Giudeo, era un rabbino che si dedicava alla raffinata arte poetica nella geniale forma della maqama, genere con cui venivano narrate “avvincenti e sapide scenette – come si legge nel libro – con colpi di scena e mascheramenti e perle di saggezza finali” nella lingua sacra dell’Islam, si trova a far tappa durante un viaggio in una locanda dove viene svegliato, a notte fonda, dai rumori provocati dalle arti amatorie del vicino. L’occasione è buona per inscenare un incontro fortuito nella locanda tra i due uomini che trovano un sodalizio letterario nel tradurre in versi gli effetti della nottata. L’ironia naturalmente non manca, anzi accompagna la vicenda di questo rabbino letterato che aveva probabilmente conosciuto Dante. “Emanoello fa entrare il sonetto nell’ebraico, rafforza l’uso dell’endecasillabo, copia Dante e per questo venne messo al bando – ancora oggi in alcune yeshivot – perché la sua poesia è irriverente, non è veramente specchio di fede secondo gli usi canonici di emunà e la sua versione dell’erotismo non affonda veramente nella mistica. Insomma, non regge il confronto con Israel Najara che tra la fine del 500 e l’inizio del 600 ha composto versi erotici intrisi di fede. Eppure, ai suoi tempi era piuttosto chiacchierato…”, racconta l’autore de Il viaggio e l’ardimento. Perché? “A fare da delatori furono due pezzi da 90, Hayyìm Vital Calabresi e Menahem Lonzano che raccontarono le vicende di Najara, sposato e con figlia, che andava nelle bettole dei greci e degli arabi a imparare la metrica e a trovarvi ispirazione, e che a loro dire ebbe avventure omoerotiche. I cabalisti di Safed si interrogano sulla possibilità di cantare le sue poesie di Shabat, ancora oggi celeberrime e in uso. La risposta che tradizionalmente p attribuita a Yitzhak Luria fu: “Sì, si possono cantare perché rallegrano Colui che è assiso nei cieli”. Il suo canto più famoso è Yah Ribbòn. La ragione sta nell’emunà, nella fede che gli veniva riconosciuta, così ben espressa nell’afflato mistico che pervade le sue composizioni”.
Tornando alle Marche e all’Italia, il Rinascimento italiano è un momento interessantissimo per la storia ebraica, in pieno fermento culturale e con uno scambio osmotico con la cultura locale, pur ricordando che lo stesso è periodo dei ghetti, dell’inquisizione e della caccia alle streghe. “Sì, ma in Italia il Rinascimento ha avuto un precedente unico: il ‘300. Nel ‘200 e nel ‘300 ci sono alcuni centri importanti come Verona, Roma, Ancona e qualche altra città da cui transitano grandi personaggi ebrei, tutta gente che si scambiava studi e teorie sulla lingua ebraica, sulla mistica e sulla filosofia, anche grazie a prestiti, in andata e in ritorno, con la cultura islamica. Si arrivava poi alla lingua italiana e alla letteratura, con anche il fenomeno controverso ma interessantissimo della cabala cristiana”, dice Robiati Bendaud.
Il linguaggio poi si radica, entra nelle case di tutti e si trasmette di generazione in generazione con modi di dire ed espressioni le cui origini spesso vengono dimenticate, insieme alle storie raccolte e recuperate in questo libro con tanta cura. Ma non è difficile immaginare da dove viene, nel dialetto anconetano, l’espressione “Famo Shabà” per dire che qualcosa è andato bene e vale la pena festeggiare. Non diversamente per la parola che nel piccolo comune montano di Apecchio (PU) si usa per indicare una persona di valore e integra: kashìr.
Si arriva fino qui, tra luoghi meravigliosi che invitano il lettore a prendere e partire per visitarli, tra realtà e fantasia. “Il libro ha anche questo intento, promuovere il turismo ebraico nelle Marche. Era un progetto che rav Laras cercava di portare avanti per dare sostentamento alle piccole comunità, garantendo, attraverso il turismo, la vita ebraica in quei luoghi così antichi e preziosi. Ci stiamo lavorando. Dovrebbe nascere un museo diffuso dell’ebraismo marchigiano che dovrebbe aiutare le comunità a mantenersi, in sinergia con accordi con le città universitarie sul territorio, pronte ad ospitare studenti israeliani e produttori di cibo kasher. Porrebbe fine all’assistenzialismo, modello che non ha funzionato anche perché non ha costretto le piccole comunità a ripensarsi e a rilanciarsi. Il rabbino capo rav Shunnach, raccogliendo l’eredità di rav Laras insieme ad altri amici e a me sta portando avanti questo progetto pilota, speriamo coronato di successo”.
Nove storie di esili, vessazioni e fughe della diaspora ebraica, di Marta Spizzichino, «Shalom», 15 marzo 2021.
“Il viaggio e l’ardimento” è il nuovo libro scritto da Vittorio Robiati Bendaud per la casa editrice Liberilibri. Personaggi realmente esistiti si mescolano ad altri inventati ma verosimili in contesti altrettanto realistici.
A susseguirsi sono nove storie di esili, vessazioni e fughe della diaspora ebraica.
Le Marche, che sono il filo rosso del libro, si rivelano terre accoglienti e fonti d’insidia allo stesso tempo.
C’è Immanuel da Roma, detto Manoello, che visse tra il XIII e XIV secolo, peregrinando per l’Italia e componendo sia in ebraico sia in volgare. Alla corte di Cangrande della Scala con tutta probabilità conobbe Dante e come scrive l’autore “fu legato da vincoli amicali al letterato e giurista Cino da Pistoia e a Bosone da Gubbio, politico e uomo di lettere, entrambi amici di Dante Alighieri”.
Poi è raccontata la storia di Estellina Conat, la prima stampatrice ebrea della Storia e una delle prime donne a cimentarsi nell’arte tipografica.
Si parla anche di Ghershòn Soncino, Aldo Manuzio, Francesco Griffo e dell’Abstemius che corrispondono a persone realmente esistite, parimenti a ciò che viene detto riguardo la stampa nel mondo islamico: per molto tempo in mano agli ebrei e poi a ebrei ed armeni. Scrive l’autore: “Per questo motivo ho voluto far comparire i due preti di quel glorioso e nobile popolo, oltreché per una stretta vicinanza di sentire, attitudini e destini con il popolo ebraico”.
E ancora si racconta di una delle pagine più buie dell’antiebraico cristiano in Italia che vide i marrani bruciare ad Ancona.
“In loro memoria – scrive l’autore – sono state composte elegie sinagogali da recitarsi il Nove di Av, il giorno di digiuno e di lutto che annualmente ricorda la distruzione del Santuario di Gerusalemme”.
Poi ci sono il medico e botanico portoghese Amato Lusitano che nel XVI secolo dopo essersi stabilito ad Ancona partì per Salonicco, dove morì di peste e Moshe Basola, uno dei più autorevoli rabbini italiani della seconda metà del XVI secolo che tra il 1521 e il 1523 fece un viaggio in Terra Santa. Un viaggio romanzato in cui appare anche il nipote, poeta e qabbalista Mordechai ben Yehudah Dato, famoso per aver composto l’inno Le-El’olam netanné shir “con cui nelle Marche si suole accogliere lo Shabbàt e a cui Elio Toaff dedicò anni or sono un breve scritto”.
Un libro che in poco più di cento pagine restituisce coscienza di sé e fierezza alla piccola comunità ebraica marchigiana, ancora troppo poco conosciuta eppure culla dell’ebraismo mondiale nei secoli passati. Buona lettura!
“Il viaggio e l’ardimento”: Vittorio Robiati Bendaud racconta le storie di un ebraismo italiano da non dimenticare, di Ugo Volli, «Progetto Dreyfus», 20 gennaio 2021.
La capitale dell’ebraismo italiano è da sempre la comunità di Roma, per antichità, numero d’abitanti, originalità culturale. Ma il nostro paese è ricchissimo di centri ebraici autonomi con insediamenti antichi come in Sicilia e in tutto il Sud, sinagoghe di grande bellezza come a Venezia e a Casale, grandi tradizioni di studio e di cultura come a Padova e a Mantova. Persino piccolissime comunità come quella di Bertinoro in provincia di Forlì o Soncino (Cremona), da tempo scomparse, sono nomi famosi da secoli in tutto il mondo ebraico. E tanti altri centri andrebbero nominati per mille ragioni, da Trieste a Cuneo, da Pitigliano a Livorno, da Trani a Pisa, Modena, Lugo, Gorizia, Verona… Ciò che è importante in ogni comunità, ancor più degli edifici storici, dei libri sacri e di studio e degli arredi sinagogali, spesso saccheggiati o dispersi o ormai museificati, sono le storie: i personaggi, i maestri, le persecuzioni subite, i rischi superati, le liturgie e i costumi particolari. Raccogliere queste storie e raccontarle ancora non è solo un atto di erudizione, ma un gesto d’amore e di continuità di tradizioni antiche che hanno ostinatamente tenuto testa alle sfide del tempo, fino a quando la Shoah o anche solo l’assimilazione e l’emigrazione hanno messo a rischio la loro esistenza.
E’ quel che ha fatto Vittorio Robiati Bendaud per Ancona e dintorni in un piccolo libro colto e intelligente, di piacevolissima lettura, intitolato “Il viaggio e l’ardimento” (Liberilibri, pag. 122, € 14). La comunità ebraica di Ancona, testimoniata già nell’undicesimo secolo, fu importantissima fra il Rinascimento e l’età barocca, perché era il porto principale verso il Medio Oriente e la Turchia per l’Italia centrale e lo Stato della Chiesa, secondo solo a Venezia nell’Adriatico, ma non soggetto alle vicissitudini belliche della Serenissima. Non sorprende che vi crescesse una folta, ricca e colta comunità ebraica, dato che i rapporti con l’impero ottomano erano importantissimi per gli ebrei che vi si erano rifugiati in massa dopo la cacciata dalla Spagna e quelli italiani potevano facilmente trovarvi corrispondenti commerciali, interlocutori culturali e religiosi e, nei casi non rari di persecuzioni, anche soccorritori solleciti. Ancona – porto, centro commerciale, punto di transito – era però anche uno snodo culturale di rilievo, dove passavano libri, persone, idee, con l’illusione di essere almeno parzialmente al riparo o almeno a distanza dalle occhiute inquisizioni papali.
I nove capitoli di questo libro raccontano alcuni di questi viaggi e incontri: la stampatrice cinquecentesca che viene dalla Lombardia e finirà in Turchia, i rabbini che da Ancona vanno a Safed per incontrare i grandi cabbalisti, l’inviato del popolarissimo falso messia Shabbetai Zvi che passa da Ancona durante il viaggio per andare a Roma a eseguire un esorcismo per la caduta del papato, il sapiente ebreo che incontra Dante… Sono fatti che avvengono solo in parte ad Ancona, per lo più intorno ad essa, nelle Marche, in Italia settentrionale, in Galilea, nella rete delle relazioni e dei rapporti che legavano gli ebrei di tutto il Mediterraneo e oltre. I protagonisti sono diversi, ma per lo più appartengono al mondo dei dotti e di chi stava loro vicino, non solo per la diffusione della cultura e dello studio nelle comunità ebraiche, allora incomparabilmente più sviluppata di quanto accadesse nelle popolazioni circostanti, ma anche perché naturalmente sono questi ambienti ad aver lasciato tracce in forma di libri, lettere, ricordi.
“Il viaggio e l’ardimento” nasce infatti dai documenti, da ricerche condotte negli archivi e nelle biblioteche. I personaggi principali sono infatti tutti storici e così le vicende più importanti della loro vita, che ce li rende interessanti ed esemplari. I dettagli, i dialoghi, le descrizioni invece no, sono dovuti alla fantasia dell’autore, che si è sforzato con successo di umanizzare e avvicinarci figure storiche lontane che vivono in tempi difficilissimi e si sforzano non solo di sopravvivere loro, ma anche di conservare il loro ebraismo, di salvaguardare le loro comunità, di ragionare sul destino che li prende sforzandosi di vederne le tracce di un piano di salvezza e liberazione.
Per tutto il libro, pur così intessuto di viaggi (e di “ardimento” dell’ardimento di restare ebrei in Europa durante le persecuzioni), corre infatti una tensione ideale, che mette in relazione e in contrasto la razionalità politica, commerciale, umana di questi personaggi con un tratto visionario e mistico, straordinariamente sentito. La maggior parte dei racconti si svolge nei secoli di Cordovero, di Luria, di Shabbetai Zvi, insomma del trionfo della Kabbalah. E nei gesti dei personaggi si intuisce un atteggiamento interpretativo, un attaccamento ai testi, una bruciante curiosità per il senso del mondo, una sconfinata fiducia nella possibilità di accedere alla provvidenza divina usando il sapere della Tradizione – tutti i tratti caratteristici di quel tempo.
E’ una tensione che continua fino all’ultimo racconto, ambientato pochi decenni fa, quando rav Laras, il maestro di Vittorio Robiati Bendaud, svolgeva il suo primo incarico rabbinico proprio nella comunità di Ancona e proprio all’inizio si trovò di fronte a a una richiesta di impiegare mezzi cabbalistici per agevolare la guarigione di una malata grave. Ciò accadde però proprio mentre rav Laras apriva una corrispondenza con Gershon Scholem, il fondatore degli studi sulla Kabbalah. Entrambe le vicende sono vere, sia l’uso rabbinico della specialissima preghiera che assicura la guarigione, sia la vicinanza a uno studio che storicizzò e portò sul piano filologico dei documenti tali credenze mistiche.
E’ questo racconto, secondo me, che mostra la ragione più profonda del libro: non solo perché esso mette in luce l’affetto profondo e l’ammirazione dell’autore nei confronti del suo maestro, uno dei più grandi rabbini e intellettuali ebraici italiani dell’ultimo periodo, ma anche perché in esso vi è la chiave della vicinanza e della lontananza che allo stesso tempo Vittorio Robiati Bendaud pratica e ci indica nei confronti dei suoi personaggi: ebrei come noi, ma immersi in un mondo fisico e mentale che dobbiamo sforzarci di comprendere con la nostra mentalità attuale. E’ quel che fa questo libro con leggerezza letteraria, competenza storica e commozione umana. Tanto che alla fine rimpiangiamo solo di non poter leggere di più: altri viaggi, altri ardimenti, altre storie.
L’epopea degli ebrei nelle Marche, di Nathan Greppi, «Ugei.it», 5 gennaio 2021.
Sebbene oggi abbiano un’importanza marginale per l’ebraismo italiano, c’è stato un tempo in cui le Marche ospitavano comunità molto importanti, da Ancona ad Urbino, da Fermo a Macerata: queste terre erano un punto d’incontro tra Oriente e Occidente, in quanto vi si trovavano ebrei romani, veneziani, dei paesi islamici, nonché i sefarditi che volevano fuggire lontano dall’Inquisizione che dava loro la caccia. Tante storie che riemergono nei 9 racconti racchiusi nel volume Il viaggio e l’ardimento, scritto da Vittorio Robiati Bendaud e pubblicato da Liberilibri.
Le storie raccontate da Bendaud, scrittore e traduttore che è stato anche consigliere UGEI nel 2011, sono quelle di importanti esponenti dell’ebraismo marchigiano o che sono passati per le Marche nel corso delle loro peregrinazioni, in un arco di tempo che va dal ‘300 fino al secolo scorso. Oltre a figure storiche come Rav Immanuel da Roma, che fu amico di Dante Alighieri, o della celebre famiglia di stampatori Soncino, viene raccontato un episodio della gioventù di Rav Giuseppe Laras, tra i più importanti esponenti dell’ebraismo italiano contemporaneo che è stato a suo tempo maestro dello stesso Bendaud. Non mancano episodi di antisemitismo cruenti, come il rogo dei marrani di Ancona del 1556, nel quale circa 25 persone furono uccise.
Dopo aver trattato la storia degli ebrei nei paesi islamici nel saggio La stella e la mezzaluna, Bendaud esordisce nella narrativa con racconti che narrano fatti realmente accaduti con la serietà di un testo accademico e l’intensità di un romanzo storico. Essi sono il frutto di uno studio e di una documentazione molto approfondite, e non a caso l’autore ha ringraziato per l’aiuto Maria Luisa Moscati, massima esperta vivente della storia degli ebrei marchigiani.
La pietra e l’edificio, di Niram Ferretti, «L’informale», 29 dicembre 2020.
Titolo da poema cavalleresco quello dell’ultimo libro di Vittorio Robiati Bendaud, Il viaggio e l’ardimento. Si tratta di nove prose in cui fatti e personaggi reali si mischiano con altri partoriti dalla fantasia dell’autore che, in questo modo, compone delle miniature di vita, o meglio di peripezia ebraica dal Medioevo ai nostri giorni, di cui l’Italia e le Marche, con alcuni sconfinamenti, compongono la geografia essenziale.
Ma di quale viaggio parliamo e in che cosa consiste l’ardimento? Il viaggio è topos inseparabile della letteratura, da quello per i mari di Odisseo, a quello sotterraneo e celestiale di Dante, a quelli di Don Chisciotte e Sancho Panza, ai swiftiani viaggi di Gulliver, per giungere a più recenti viaggi al termine della notte. Ma il viaggio è anche esperienza così profondamente ebraica, dal viaggio da Ur dei Caldei per la terra promessa imposto da Dio ad Abramo, padre della fede e dei patriarchi (e che Bendaud pone a inzio e fine libro come suggello), primo sradicamento che ne prefigurerà altri ben più dolorosi, a quelli dell’erranza, che tra accoglienza e rigetto hanno associato alla figura dell’ebreo il movimento lungo i secoli.
Si muovono molto le figure disegnate da Bendaud con destrezza briosa, anche quando tratta di fatti drammatici e tragici. Sono tutti personaggi fuori dal comune: Immanuel da Roma (Manoello) letterato fine e peregrino per l’Italia, che probabilmente a Verona conobbe Dante, Estellina Conat, la prima stampatrice ebrea, Amato Lusitano, medico e botanico, Mosheh Basola, tra i più autorevoli rabbini italiani del XVI secolo, Rav. Giuseppe Laras, che dell’autore è stato maestro, e altri. Intorno a loro interagiscono altre figure non meno suggestive. I personaggi entrano ed escono come dalle quinte di un teatro, e non so se Bendaud avesse in mente nello scrivere il suo libro, un altro consolidato topos letterario, quello della vita come palcoscenico, che è qui ben presente e rende la lettura godibile come una rappresentazione scenica.
L’ardimento, invece è quello delle imprese compiute, del coraggio e della perseveranza in mezzo alle avversità, è la volontà e l’acribia di non cedere mai alla disperazione ma il continuo impegnarsi e rinnovarsi. Quando, in finale di libro, come in una favola esopiana, una rodine che aveva dialogato con Abramo all’inizio, ritrovandolo peregrinante per Camerino, gli chiede «Ma, Abramo, perché tutto questo? Qual è il perché delle storie della tua gente che ho sentito raccontare, alcune delle quali ti riguardano di persona?, il patriarca le risponde, «Godi del tuo cibo e gusta il tuo tempo, rondinella. Tieni a mente che, con ogni probabilità, tutte queste storie, assieme a molte altre ancora, serviranno per ricostruire. Mai demordere, mai perdere la speranza», vediamo emergere forse la cifra più profonda e segreta di questo testo.
Ricostruire ciò che è infranto e sparpagliato, l’intreccio dei destini, il loro accavallarsi. Dentro il tortuoso e confuso itinerario della storia, in questo caso della storia ebraica, di un suo prezioso frammento, ogni personaggio raccontato da Bendaud pone la pietra dell’edificio di cui è parte.
La diaspora ebraica in nove storie. Intervista a Vittorio Robiati Bendaud, di Federica Masi, «Nazione Futura», 23 dicembre 2020.
Vittorio Robiati Bendaud racconta la diaspora ebraica in nove storie diverse legate da un unico fil rouge. Un libro che ha lo scopo di rispolverare la storia e ripristinare l’essenza della memoria, a cominciare dalle comunità marchigiane e umbre a cui l’autore dedica questo lavoro editoriale.
Il suo ultimo libro “Il viaggio e l’ardimento” rivisita la storia riportandoci alla diaspora ebraica. In che modo ha unito l’aspetto storico con lo stile del romanzo?
Questo libriccino, per certi versi anomalo, non è un romanzo. È il racconto di nove diverse storie, tutte assai brevi, che abbracciano un arco temporale che va dal XIV al XX secolo. Le vicende si ricollegano l’una all’altra in un’unica narrazione. Sono storie realmente accadute, alcune avveniristiche e grintose, altre eccentriche e quasi oniriche. Ho dovuto sorvegliare la mia creatività per evitare che fossero alterati – o eccessivamente forzati – i dati storici pervenutici. Ho provato a mettere la fantasia al servizio di questi fatti, per contribuire a farli uscire dal dimenticatoio o da tomi polverosi, restituendo ai personaggi parola, carne e sangue. Mi premeva riproporre queste vicende un pubblico più ampio, in primo luogo perché comunicano qualcosa a me. Molti personaggi evocati meriterebbero ciascuno un romanzo: ho preferito proporre nove istantanee, nove schizzi un po’ impressionistici con rapide pennellate, che lascino spazio all’immaginazione del lettore.
Nove sono le storie che si susseguono con l’intento di restituire al lettore l’incontro tra odissea e anabasi nell’epopea della diaspora. Chi sono i protagonisti?
Spazio e tempo ci attraversano e permettono la conoscenza. I protagonisti del mio libro sono sovente sottoposti ad accelerazioni inaudite, con la storia che li incalza; oppure sono sorpresi in una dimensione quasi immota. Alcuni sono schiacciati in luoghi angusti, altri, invece, cavalcano l’immensità del mare o camminano lungo saliscendi collinari. È la nostra dimensione umana a essere fatta così. Questi personaggi sono ebrei, e dunque, in ragione di tale appartenenza, dovettero esperire, spesso loro malgrado, tutto questo con inusitate intensità e crudezza. Se è vero che si tratta anzitutto di racconti marchigiani, e quindi diasporici, il fil rouge del testo è il continuo e millenario rapporto tra Diaspora e Terra di Israele, tra andata e ritorno, in cui il porto di Ancona gioca un ruolo fondamentale, risultando esso stesso un “personaggio” chiave. Ed ecco che ci imbattiamo nel rabbino Immanuel da Roma, stilnovista della prima ora, ancora oggi chiacchierato in taluni ambienti rabbinici; nella fulgida Estellina Conat, la prima stampatrice al mondo, un’intellettuale d’avanguardia, come pure nell’intrepido stampatore e umanista Ghershon Soncino; in Amato Lusitano, il grande botanico e studioso di medicina; nel medico e rabbino Shimshòn Morpurgo, autorità rabbinica di vaglia, i cui scritti sono tutt’oggi studiati in tutto il mondo, che salvò Ancona da una mortifera epidemia influenzale.
All’interno dei racconti sono presenti episodi di intolleranza religiosa?
L’intolleranza religiosa è un luttuoso e feroce male che accompagna la storia umana. Per farne un identikit bisogna accettare che essa colpisce trasversalmente, in modo variegato, ricchi e poveri, circoli eletti e popolo minuto, eruditi e ignoranti, nutrendosi tanto di cultura che di superstizione, tanto di calcolo che di idiozia, di pensiero retrivo come pure, paradossalmente, di programmatico progressismo. L’antisemitismo, nello specifico, fu una spaventevole e spietata costante. Nelle Marche, come nelresto del mondo, gli ebrei furono oggetto di forti sentimenti antitetici: alla ferocia del multiforme odio antiebraico, di cui rendo conto nei racconti, fanno da controcanto episodi toccanti di fratellanza tra cristiani, musulmani ed ebrei. Il porto dorico, infine, restituisce un’ulteriore dimensione: quella della liberazione e della speranza. Sul rapporto tra i tre monoteismi suggerisco un mio saggio, recentemente edito da Guerini & Associati con prefazione di Antonia Arslan, che credo che possa contribuire a meglio inquadrare queste dolorose e complesse questioni: La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islam (2018).
Lei dedica questo lavoro alle comunità marchigiane e umbre. Perché?
Il devastante terremoto del 2016 ha sfigurato quei territori, mietuto crudelmente morti e distrutto comunità. Ho amici terremotati, ecco perché! Al sisma si è aggiunta l’inetta politica di governi scellerati e una burocrazia infame: una vergogna, insensata e spietata, inflitta a persone e collettività già ferite da una calamità immane. Non possiamo, né vogliamo, dimenticare! Occorre affermare a gran voce, indipendentemente dal Covid19, che queste persone e questi luoghi devono essere la priorità dell’azione tangibile del Parlamento e della società civile, prima di altre urgenze, di qualsivoglia altro soccorso umanitario o di altre povertà. È in gioco il futuro del cuore verde dell’Italia, tra i monti Sibillini – quei monti azzurri celebrati da Leopardi –, e il mare: una sintesi felice e sostenibile tra il dolce tripudio della natura e l’agire dell’uomo. Si tratta della patria culturale e spirituale del nostro Paese: edificata da comunità ebraiche plurisecolari, da Benedetto e Francesco; eternata da Raffaello, Paolo da Visso e Gentile da Fabriano; musicata da Pergolesi e Rossini… il suo abbandono è emblematico del suicidio spirituale e culturale delle dirigenze dissolute e arroganti che deturpano da troppo tempo il nostro Paese. A questo scempio resistono, eroicamente, con tenacia, tante famiglie (e imprese) provate dal terremoto, a cui tutti gli italiani di domani dovranno tantissimo. Tra questi eroi vi sono contadini, ristoratori, pastori, piccoli e medi imprenditori, viticoltori e tante altre persone ancora. E vi è l’impegno meritorio di molti amministratori locali! Se l’Italia vorrà rinascere e non smarrirsi e morire, bisognerà che la politica – e con essa la cultura e l’imprenditoria italiane – combattano con efficacia, differentemente da quanto in questi decenni non è stato fatto, lo spopolamento delle due straordinarie macroregioni che attraversano e definiscono lo Stivale, rilanciandole per il terzo millennio: le splendide Alpi e i magnifici Appennini.
Le Marche come terra d’approdo e continuità della tradizione ebraica.
La storia dell’ebraismo marchigiano è plurale e millenaria. Vi furono le piccole comunità montane ai piedi dei monti Sibillini, come pure quelle in centri dinamici come Fermo, Fabriano e Jesi. Vi è la storia, inscritta nella saga artistica e filosofica del Rinascimento, con i suoi chiaroscuri, degli ebrei urbinati. Vi è, poi, l’avventura secolare delle importantissime comunità di Pesaro, Senigallia e, ovviamente, Ancona, che fa da vero e proprio centro gravitazionale (non solo italiano, ma anche adriatico-mediterraneo). Quella degli ebrei delle Marche è una storia di prima grandezza, dall’alto Medioevo al XX secolo, costantemente sospesa tra la cristianità (e i papi), la Sublima Porta (con i sultani-califfi) ed Eretz Israel, la Terra di Israele, tra ghetti e porti. Questa storia appassionante ha varcato mari e oceani e attraversato i secoli.
Porto di Ancona, pendici dei Sibillini e altri sfondi italiani. Al di là del viaggio geografico, è possibile tracciare un itinerario filosofico?
Credo che in quei luoghi si possano individuare molti itinerari, tanto mentali che turistici, non solo filosofici e immaginifici, che si intersecano tra di loro: pellegrinaggi letterari; itinerari d’arte e musicali; tour enogastronomici; percorsi religiosi tra ebraismo e cristianesimo; camminamenti per borghi, colline e montagne, giungendo al porto dorico. Un calice di verdicchio di Matelica può certamente diventare narrazione ed estasi; una pagina biblica, una cronaca o un prezioso arredo sinagogale possono raccontare storie specifiche e suggerire collegamenti che imperiosamente ci comandano imprese e viaggi avventurosi…
Nel nostro Paese esiste un dialogo con la cultura ebraica?
Un mio amico non ebreo, recensendo questo libro, l’ha definito “visceralmente italiano” (definizione che mi ha fatto immenso piacere), ed è un libro che racconta storie ebraiche. Gli ebrei dimorano in Italia da almeno ventidue secoli, con un amore profondo – a volte misconosciuto, a volte disprezzato e non ricambiato, a volte corrisposto con lealtà e passione commoventi – per questo nostro benedetto Paese – per la sua lingua, la sua cultura e la sua gente–, di cui siamo parte integrante e fondativa. Medioevo, Rinascimento e Risorgimento sono tre fasi gloriose della storia italiana, che orientarono potentemente la storia dell’umanità: il contributo ebraico all’Italia in queste epoche, solo per fare un esempio, è stato enorme. E vi è pure il contributo specifico dell’Italia all’ebraismo… credo che alcuni racconti del mio libro rivelino molto di tutto questo. Esiste da sempre, e ovviamente si perpetua anche nei nostri giorni, una comunicazione profonda tra la cultura italiana e l’ebraismo. È esistita persino nei secoli dei ghetti, nonostante le infamie sofferte e la reclusione coatta. Oggi viviamo una rinnovata interazione tra cultura cristiana italiana ed ebraismo, tra cultura laica italiana ed ebraismo, tra Italia e Israele. Tale interazione dialogica si declina in più modi e non di rado con eccellenze. L’auspicio è che possa rafforzarsi e implementarsi.
Il viaggio e l’ardimento, di Davide Cavaliere, «Caratteri Liberi», 1 dicembre 2020.
La presenza degli ebrei in Italia è sempre stata congiunta, nella coscienza nazionale, a delle specifiche città. La Torino ebraica di Primo Levi, la Trieste ebraica di Umberto Saba, la Ferrara ebraica di Giorgio Bassani, la Venezia ebraica di Daniele Manin e la Roma ebraica, la cui presenza nella mente degli italiani è legata soprattutto al terribile e disonorevole rastrellamento del ’43. All’incirca è questa la cartografia interiore che gli italiani possiedono dell’ebraismo nazionale.
Vittorio Robiati Bendaud, col suo primo lavoro letterario, Il viaggio e l’ardimento, allaccia le vicende degli ebrei a una regione particolare: le Marche. Caso unico, si suppone, nella letteratura relativa all’ebraismo italico. Non si tratta, però, di un libro dalle tinte provinciali o localiste, nient’affatto. I nove racconti che compongono il testo assumono una valenza universale — non solo come incarnazioni del peregrinare dei discendenti di Abramo — ma perché sono incastonati nella storia europea e narrano un destino collettivo.
Nove vicende del popolo ebraico che si dipanano nella Marche, ma che hanno il loro inizio molto più lontano e la loro fine in là nel tempo. Sebbene gli ebrei abbiano — rubando il titolo a un libro di Saul Israel — le “radici in cielo”, con la penisola italiana hanno intrattenuto una relazione intensa. Il ché fa dello scritto di Robiati Bendaud un testo visceralmente italiano.
“Lungo la via, i tre sostarono nella poetica Recanati per rifocillarsi e per pregare sulla tomba del mistico rabbino Menahèm ben Biniamìn, di cui più volte, con tiepida devozione, avevano studiato le opere”. La splendida Recanati, prima di essere la città amata e odiata da Giacomo Leopardi, fu luogo di ristoro per Manoello Giudeo, il Dante Alighieri degli ebrei. Un illustre letterato, Giuseppe Antonio Borgese, scrisse che il Sommo Poeta “fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele”.
Il Dante del popolo ebraico e il Mosè del popolo italiano s’incontrarono davvero. Ma le consonanze non finiscono qua, Giacomo Leopardi amava la lingua ebraica, della quale esaltava la poeticità — da traduttore dei Salmi qual era. Nelle sue opere giovanili come l’Inno a Nettuno e il Cantico del Gallo Silvestre, compare la frase in aramaico “Scir detarnegòl bara letzafra”, che altro non è che la traduzione del titolo dell’operetta morale. Ebraismo, Marche e Poesia.
Tutte le storie intrecciano itinerari geografici a sentieri intellettuali. I protagonisti sono sempre sapienti, rabbini, stampatori, uomini e donne dediti alla studio e alla lettura. Il libro è scandito dalla presenza della Torah, delle preghiere, dell’apprendimento, della testualità. “Prima di risalire all’aria aperta, volle accertarsi che un particolare baule fosse ben assicurato, quello contenente le matrici e i punzoni intagliati”. Fugge dall’odio antiebraico con gli strumenti della stampa Ghershòn Soncino, l’uomo al centro del terzo racconto. Dai tempi di Ur dei Caldei, la Scrittura garantisce l’Ebreo sulla sua identità ed esistenza.
Per questa ragione, forse, l’autore evoca il rogo del Talmùd ordinato da Giulio III: “I due amici rividero balenare per un istante l’orgia di fiamme sacrileghe che avvolsero e divorarono i libri ebraici nelle piazze e ripensarono con rinnovato strazio al loro comune amico Avigdor ben Zechariah, il rabbino di Macerata, ucciso mentre cercava disperatamente di salvare dalla pira la pagine”. Gettarsi tra lingue di fuoco per salvare dei libri, un atto drammatico quanto i dibattiti teologici e metafisici che si tenevano a pochi metri dalle camere a gas.
I protagonisti della creazione letteraria di Robiati Bendaud ardono di una passione inusuale per la conoscenza. E non potrebbe essere diversamente, tra tutte le religioni esistenti, solo la liturgia ebraica prevede una benedizione per chi ha uno studioso in famiglia.
Le storie messe per iscritto, tutte vere, sono, soprattutto, novelle dolorose. Peripezie, fughe, ingiustizie, innervano tutto il libro. Le Marche sono, talvolta, una terra ospitale e di liberazione: “I porti di Venezia, Pesaro e Ancona furono costantemente meta di pellegrini ebrei che salpavano alla volta di Israele”, ma non immune all’antisemitismo. Nella suddetta regione, esattamente come nel resto del mondo, gli ebrei sono oggetto di forti sentimenti antitetici. All’orrore del fanatismo antigiudaico, fanno da controcanto episodi toccanti di fratellanza tra cristiani, musulmani ed ebrei.
Ma qual è il senso delle sciagure inflitte a Israele? La replica credo sia contenuta nel libro stesso: “Non ci è dato di conoscere la risposta. O impazziremmo oppure, conoscendola, diventeremmo insensibili a tutte le brutture di questo mondo, perché né afferreremmo il senso ultimo. Noi siamo solo polvere e cenere, ma possiamo discutere, anche con rabbia, con Dio. Non è poco”.