Questo libro di Harvey C. Mansfield è già un classico e, allo stesso tempo, un testo da mettere all’indice. L’Autore, celebre professore di filosofia politica dell’Università di Harvard, avverte la necessità di tessere le lodi di una delle virtù più bistrattate della contemporaneità: la virilità. Passando in rassegna l’intera cultura occidentale dalle sue radici nella Grecia classica fino ai nostri giorni, e chiamandola a testimone della sua tesi, pone in luce la grandezza di questa virtù niente affatto machista ma, al contrario, ricca di nobiltà e di apertura all’altro, di spirito di sacrificio e nobile grandezza. Superando categorie escludenti come il sessismo, Mansfield si contrappone allo scientismo spesso troppo limitante della psicologia sociale e della biologia evoluzionistica. In un mondo che tende a farsi grossolanamente egalitarista, tendendo non alla parità ma a una generale indistinzione, Virilità si pone come un solido argine culturale con cui è necessario confrontarsi.
Virilità
Elogio di una virtù bistrattata nell’epoca della società gender-neutral.
Traduzione di S. Coluccia, L. C. Dapelli, G. Giri (2006)
Riveduta da M. Silenzi
Pagine 432
ISBN 9788898094899
Prima edizione 2021
Il prezzo originale era: 20,00 €.19,00 €Il prezzo attuale è: 19,00 €.
Che coraggio Harvey Mansfield, a scrivere di virilità contro il genere intercambiabile, Preghiera di Camillo Langone, «Il Foglio», 17 dicembre 2021, pag. 2
Si ammiri la virilità dimostrata da Harvey Mansfield nello scrivere “Virilità” (Liberilibri), 420 pagine indispensabili contro la società sessualmente neutra, la fatiscente società occidentale che pretende uomini e donne intercambiabili. Mansfield, vecchio professore di Harvard, ha dimostrato quel coraggio che è una caratteristica della virilità. Pubblicato qualche anno prima della pandemia sembra scritto ora, siccome il covidismo proprio sulla virilità si è abbattuto, infantilizzando sudditi che non aspettavano altro. “Le persone ossessionate dalla propria salute non sono virili perché preferiscono un’esistenza più lunga alla vita breve ma ricca di eventi di cui Achille offre un nobile esempio”. Non che io mi paragoni all’eroe omerico (non sono un eroe nemmeno intellettuale) ma ecco uno dei motivi del mio odio verso la mascherina: mi mostra pusillanime. Un uomo può avere paura ma deve evitare di mostrarlo, specie se il pericolo è statisticamente modesto. Lo Stato leviatanico non tollera il vir: Mansfield spiega come Hobbes trasformi la psicologia umana, come nella sua società, che è poi la società odierna, “tutti hanno il dovere di dimenticare la propria virilità e diventare socievoli, o sensibili, o relazionali, o non virili”. Tutti hanno il dovere di diventare donne.
I maschi servono alla società. E alle femmine, di Maurizio Zottarelli, «Libero», 22 novembre 2021, pag. 19
Avvertiamo subito i lettori, nei titoli di testa come nei film, che l’argomento è scabroso, adatto solo a un pubblico adulto. Qui, infatti, si discetta di “virilità”. Anzi, si tenta addirittura una, per quanto moderata, difesa della virilità. Di questi tempi, un po’ come mettersi in testa di difendere il Ku Klux Klan. La fantasia balzana è sorta a un filosofo della politica americano, Harvey Claflin Mansfield Jr., il quale nel 2006 ha scritto un ponderoso saggio che fin dal titolo sfida il comune sentire odierno: Virilità appunto. Il saggio, ripubblicato ora da Liberilibri (pag. 420, 20 euro) fin dalle prime battute si pone come obiettivo quello di sfidare il modello di società «sessualmente neutra» che si è imposta negli ultimi decenni e di dimostrare che la virilità, caratteristica precipua dell’odiato maschio prevaricatore, «in tutta la sua irrazionalità merita di essere difesa dalla ragione».
Quasi una bestemmia, visto che anche in questi giorni vediamo giovani manifestare in gonna a sostegno di una «mascolinità non tossica» e ridotta. Ma l’analisi di Mansfield prende l’avvio da una costatazione, quasi ovvia. Nonostante la guerra senza quartiere ingaggiata dai diversi movimenti femministi, e i tentativi per cancellarli, gli stereotipi sulle differenze tra uomini e donne resistono. Di più.
GLI STEREOTIPI
Gli studi confermano che certi modelli maschili e femminili, lungi dall’essere stati imposti da una cultura prevaricatrice, sono in realtà precostituiti, fanno parte del bagaglio naturale degli appartenenti ai due sessi. Si tratta, peraltro, di ricerche condotte da donne (quali Eleanor Maccoby e Carol Jacklin, Alice H. Eagly, Deborah Tannen), il più delle volte partite con l’intento di dimostrare l’inconsistenza delle differenze psicologiche tra uomini e donne e scontratesi con la dura realtà che tali diversità continua a proporre. In definitiva, spiega Mansfield sulla scorta delle illustri studiose, si tratta di differenze naturali che non indicano una superiorità di un sesso sull’altro, ma semplicemente un modo diverso di affrontare la realtà. Insomma, anche se la cosa non va giù alle femministe e ai sostenitori della «società sessualmente neutra», uomini e dorme insistono a comportarsi come hanno sempre fatto e per quanto un certo mondo scientifico si sforzi di cancellare gli odiati stereotipi, i fatti, più testardi di loro, si ostinano a ripresentarsi secondo le antiche consuetudini. E ci si mette pure Darwin a confermare che, per colpa dell’evoluzione, maledetta lei, una certa maggiore aggressività e forza si ritrovano nei maschi della quasi totalità delle specie animali. Altro che sovrastrutture culturali.
Ma, per l’appunto, in cosa consiste questa benedetta virilità? Per definirla il filosofo si avvale di testimonianze letterarie, da Omero a Hemingway. Alla fine, la definizione si può riassumere nel concetto di assertività, cioè nella capacità di far valere le proprie posizioni, all’occorrenza anche con una certa caparbietà. La storia, la letteratura e pure l’esperienza confermano che si tratta di una caratteristica più presente nei soggetti maschi, unita a una più accentuata aggressività che in natura si manifesta nel controllo del territorio, tra i più civilizzati uomini moderni assume i connotati della difesa dell’onore. Di fatto, concetti semplici per i quali, però, nelle ultime settimane lo storico Alessandro Barbero è stato mediaticamente lapidato a reti (e a rete) unificate.
Non contento, il filosofo americano getta un altro macigno nello stagno del politicamente corretto: vuoi vedere che se in politica e nelle posizioni di vertice ci sono più uomini che donne non è solo perché i maschietti sono favoriti dalle convenzioni sociali ma anche perché dispongono di caratteristiche psicologiche e fisiche che li rendono più competitivi? Una domanda al limite del blasfemo che aleggia sul saggio di Mansfield. Il quale, a questo punto, descrive la lunga parabola che nell’ultimo secolo, dalle proto-femministe di inizio Novecento alle battaglie degli anni Settanta, ha fatto sì che si imponesse il modello della «società sessualmente neutra».
LA RIVOLUZIONE
Una costruzione che, ironia della sorte, pone le sue basi proprio sul darwinismo che ha spogliato l’uomo e la donna della dimensione eterna di creature, riducendoli alla loro parabola biologica, orfani di ogni permanenza di significato. L’evoluzionismo in qualche modo non solo ha fatto fuori il Dio creatore della Bibbia, ma ha anche condannato l’uomo al nichilismo, aprendo così la strada a Nietzsche. E, da qui, alla rivoluzione delle femministe. Le quali, in un primo momento, si limitarono a contestare i ruoli sociali stabiliti per i due sessi, poi arrivarono a rivendicare una propria virilità come via per raggiungere il successo.
Una rivoluzione, che sulla scorta del materialismo nichilista, cancella ogni ruolo e propone una liberazione sessuale tutta ricalcata su un modello maschile, predatorio, disgiunto da ogni riferimento alla riproduzione e alla maternità. Per inseguire la libertà la donna insegue un modello maschile che, paradossalmente finisce per fare il gioco degli uomini i quali se oggi possono godere di una disponibilità sessuale che in passato non avrebbero nemmeno sperato lo devono proprio alle battaglie femministe. Ma per farsi predatrici come gli uomini, le donne, spiega Mansfield, finiscono per rinunciare alla propria identità e alle proprie caratteristiche naturali. Non basta. Nel tentativo di rivendicare il proprio nuovo ruolo “mascolino”, le battaglie femministe si sono concentrate nello sforzo di ridefinire anche quello degli uomini: perché le donne possano competere con gli uomini bisogna che questi siano meno aggressivi, meno virili, e più “sensibili” (come, appunto, chiedono gli studenti in piazza con la gonna). Ecco, dunque, comparire sulla scena “l’uomo nuovo”, ripulito, aggraziato, sensibile, raffinato, meno rude e muscolare. Se le donne non vogliono più essere femminili, l’uomo non deve più essere maschile.
MATRIMONIO E PATRIMONIO
Un quadro quello tratteggiato da Mansfield che, in qualche modo, la sapienza degli antichi aveva già fissato nelle parole. “Matrimonio”, infatti, deriva dal latino “Matris-munus”, “il dono della madre”. Come dire che la famiglia si fonda sulla donna e sulle sue caratteristiche di accoglienza e accudimento. Così come il “dono del padre” è il “patrimonio” (patris-munus), come dire che l’ufficio del padre riguardava la sfera sociale ed economica. Si può, in definitiva, dire che per inseguire il patrimonio la donna abbia rinunciato al matrimonio.
Ma è stato un buon affare? Penalizzare, limitare, sacrificare la virilità fin quasi a cancellarla, ha reso più felici uomini e donne? Qui sorgono i dubbi di Mansfield. A parte che le stesse donne, di tanto in tanto, scoprono di preferire un uomo virile rispetto al suo moderno simulacro sensibile ed aggraziato, l’esperienza stessa si incarica di ricordarci che la virilità ha ancora un ruolo nella società. Non solo guerre, violenze ed estremisti non uniformati ai nuovi canoni ci rammentano che talvolta le vecchie e muscolari caratteristiche maschili tornano utili; per quanto ci si sia sforzati di eliminarla, inoltre, la virilità negli uomini permane e cercare di reprimerla può portare solo a pericolosi eccessi (o carenze), come la cronaca racconta.
Quindi, che fare visto che indietro non si può più tornare? La soluzione del nostro filosofo è che, forse, si può ancora trovare un’occupazione alla virilità così che uomini e donne, ognuno con la sua ricchezza, possano collaborare. Se nella sfera pubblica è sacrosanto che nessuno sia discriminato in base al sesso, in quella privata uomini e donne potrebbero cercare di uscire da quell’imbarazzo al quale la «società sessualmente neutra» li ha condannati. Magari si potrebbe evitare di spingere i bambini maschi a giocare come le bambine; gli uomini potrebbero essere chiamati a essere non solo liberi ma anche virili e le donne, suggerisce Mansfield, potrebbero «riconoscere la virilità con un sorriso, tenerla sotto controllo fornendole un’occupazione o spronandola a scendere in campo. Le donne dovrebbero essere chiamate a tesserci insieme, con la loro arte femminile». E magari potrebbero sentirsi libere di inseguire la carriera ma anche di essere donne.
Insomma, forse si tratta di riscoprire delle piccole ovvietà che nei film con John Wayne, Gary Cooper e Grace Kelly sembravano chiarissime, ma oggi non lo sono più. Del resto, anche John Wayne, Gary Cooper e Grace Kelly oggi avrebbero qualche problema.
La società degli evirati, di Fabrizia Sabbatini, «L’intellettuale dissidente», 15 novembre 2021
Pronunciare, oggi, la parola virilità, è come suonare una blue note. Quasi stonato, è un lemma connotato da una certa ambiguità tonale e al contempo avvolto da un’aura di nostalgia. Ha il sapore di epiche gesta e doti cavalleresche, di film noir et blanc, ma serba in sé anche il retrogusto ferroso del potere, l’inturgidimento del cratos, è puntinato di spasimi di piacere. Ma a chi, di preciso, vada riferito il termine – nell’era della società sessualmente neutra – non è più cosa scontata.
Oggi, sono solo gli uomini ad essere virili, o anche le donne?
Ad avanzare la questione, all’interno del narcotizzante dibattito sulla parità di genere, è Harvey C. Mansfield, professore di Harvard e filosofo politico, nel suo saggio Manliness, appena pubblicato in Italia da Liberilibri come Virilità. Se Humphrey Bogart in Casablanca, con il suo volto spigoloso e il suo iconico trench coat aperto e svolazzante, può essere considerato un esempio di virilità, è possibile dire lo stesso, ad esempio, di Margaret Thatcher?
Il concetto di virilità è storicamente attribuito ad uno solo dei due sessi, pertanto – questa la riflessione da cui prende le mosse l’autore statunitense – lo stesso, oggi, potrebbe fungere da ostacolo alla neutralità di genere, difendendo, la nozione stessa, gli stereotipi fra i due. Ma asserire che sia possibile accordare l’idea di virilità anche all’universo femminile, ci farebbe ricadere in quel paradosso progressista che vuole eliminare dalla società le differenze sessuali, imponendo però di trasformare le donne in uomini.
La riflessione di Mansfield si tramuta quindi, di fatto, in una questione terminologica. Come risolverla? Giusto per fare degli esempi. La Iron Lady britannica, negli anni di governo, aveva potuto contare, oltre che sulle sue innate doti di leadership, anche su una sensibilità prettamente legata alla vita femminile. La signora Thatcher, “la figlia del droghiere”, al contrario dei suoi stessi colleghi conservatori, aveva infatti una precisa idea dei prezzi di mercato, giacché, come tutte le donne, almeno dell’epoca, aveva in mano le redini dell’organizzazione domestica, spesa compresa.
Lady Macbeth potrebbe apparire come una donna “virile” – secondo la provocazione lanciata dal professore americano – ma in realtà è solo una donna che, con una copiosa dose di persuasione femminile, fa leva sulla virilità del marito per indurlo ad uccidere. Anche un’altra eroina shakespeariana, Cleopatra, potrebbe essere definita forse addirittura più virile dello stesso Antonio, ma la verità è che entrambi, invasati dalla passione, reagiscono agli eventi politici che fanno da sfondo al dramma in una maniera che, declinata al maschile, si può facilmente definire come virile ma che al femminile non trova un suo corrispettivo di pari potenza linguistica.
La soluzione dunque potrebbe essere duplice: definire la virilità femminile in un modo differente, come assertività femminile ad esempio e, contestualmente, smettere di pensare alla femminilità come a un qualcosa che profuma di effeminatezza, una coreografia fatta di mollezza, isteria, debolezza, reazioni uterine, ormonali.
Del resto, la tanto agognata neutralità di genere non rende comunque le donne più tolleranti verso gli uomini privi di virilità. Mentre la società si femminilizza progressivamente e il maschio si devirilizza gradualmente – onde evitare d’esser parodiato come zotico e additato come predatore sessuale – la donna, al pari d’un navigante che ha smarrito la propria bussola, va alla spasmodica ricerca d’un “maschio”, uomo e gentiluomo. La vittima sacrificale dei risvolti perversi del femminismo moderno è infatti la donna media, borghese, la fautrice della nuova democrazia domestica che ha trasformato l’uomo in valido collaboratore casalingo salvo poi lamentarsi, nell’intimità d’amicali ginecei, della neutralizzazione d’ogni tensione erotica. Del resto, non dev’essere il massimo, arrivati alla sera, l’idea di giacere accanto a un uomo che ha appena finito di lucidare il parquet del salotto, sembrerebbe quasi di andare a letto con la colf.
Scomodo e controcorrente: “Virilità” è ciò di cui abbiamo bisogno nell’epoca della cancel culture, di Andrea Venanzoni, «TPI The Post Internazionale», 25 ottobre 2021
Quando alla fine degli anni sessanta, per le caotiche strade di New York, la femminista radicale Valerie Solanas vendeva, a venticinque cent per le donne e a cinquanta per gli uomini, le copie del suo SCUM Manifesto, il femminismo era nel pieno della sua battaglia per la emancipazione, spesso radicale, delle donne: e la stessa Solanas, il cui testo corrosivo e swiftiano propugnava, non senza ironia ultravioletta, la eradicazione del genere maschile, finì per aderire un po’ troppo alle sue tesi, tanto da attentare, come noto, nel giugno del 1968 alla vita di Andy Warhol, prendendolo a revolverate.
Ma se la Solanas, sofferente di una grave forma depressiva, aveva dimostrato una qualche barbarica ironia nel proprio scrivere e teorizzare e impugnando quella pistola alla fine si era dimostrata molto più coerente di tante altre teorizzatrici della violenza di cartapesta, decenni dopo la cultura della cancellazione, nella sua declinazione femminista e di sessualità neutra, ha proposto lo stesso genere di servizietto, ma in maniera molto più ipocrita, a programmi accademici, opinione pubblica, riviste, libri.
Una delle prime vittime di questa ondata di isterico politicamente corretto è proprio la ‘virilità’, termine che ormai fa quasi sorridere o inorridire, dipende dai punti di vista: nel migliore dei casi, desueto, antiquato, relitto di un’altra era geologica, nel peggiore manifestazione semantica del tanto aborrito patriarcato.
Mannerbund, fratellanza oscura e medievale, legame di sangue virile che sembra escludere dal panorama sociale la donna. Proprio per questo, il politicamente corretto ha aggredito con inusitata virulenza il concetto stesso di uomo: di uomo, cioè, che sia consapevole del proprio essere maschio e di incarnare una tradizione millenaria non propriamente scarna anche in termini latamente simbolici.
Il revival della mascolinità, ora che alle femministe piace molto abbellire il termine con l’epiteto della tossicità, ha prima imboccato le carsiche vie della controcultura: è così per il testo ‘La via degli uomini’, di Jack Donovan, in Italia edito da Passaggio al Bosco. Ma se Donovan, con il suo intreccio di iper-mascolinità alla Mishima, paganesimo tribale postmoderno, marzialità esibita e cura del corpo, sembra appannaggio di una ristretta cerchia impossibilitata ad incidere sul dibattito pubblico, non lo stesso può dirsi della penna brillante e ficcante di un accademico illustre come Harvey C. Mansfield, il cui ‘Virilità’ esce questi giorni per la sempre coraggiosa Liberilibri.
‘Virilità’ è un testo scomodo, controcorrente, e che sono certo alcuni cantori del deliquio politicamente corretto troveranno ripugnante nella sua serena razionalità e nel suo aver messo in fila, in maniera sistematica e metodologicamente ineccepibile, il senso della virilità nel passare dei secoli e nella filosofia politica.
Proprio per questo, ora invece che la cancel culture sembra aver devastato l’orizzonte, le università, la mente degli intellettuali, sempre più timorosi di esprimere le loro opinioni, il testo di Mansfield si dimostra per la sua consistenza preziosa e genuinamente libera.
L’autore passa in rassegna la grottesca fenomenologia concettuale e filosofica della società sessualmente neutra, le responsabilità di un certo femminismo radicale, la battaglia per e sul linguaggio: la trasformazione della lingua, la cancellazione di parole ormai reiette e ritenute foriere di reiterare l’oppressione patriarcale, o razziale, finiscono per innestare un cortocircuito di sempre crescente povertà intellettiva. Reclamando una impossibile e innaturale eguaglianza, come se la biologia non conoscesse differenza tra uomo e donna, questo femminismo ha tradito la propria originaria missione di riconoscimento di pari diritti, divenendo una chimera malata di iper-identitarizzazione, il cui esito ultimo è ovviamente la ghettizzazione.
E se un tempo si poteva sorridere delle tesi della femminista radicale Andrea Dworkin la quale per identificare il maschio utilizzava nelle proprie opere la locuzione ‘il nazista’ e per le donne desiderose di una relazione eterosessuale ‘le collaborazioniste’, identificando nel rapporto sessuale etero una violenza ontologica, una conquista e una sottomissione, oggi si può pensare che la Dworkin passerebbe quasi per una moderata.
Il secondo, bellissimo, capitolo di ‘Virilità’ incarna in certa misura la sostanza stessa del volume. La virilità come stereotipo.
Mansfield ricorda come Lippmann e Allport abbiano sempre sostenuto che nel fondo di uno stereotipo alberghi un certo quoziente, per quanto minimale, di verità: d’altronde lo stesso potremmo dire della banalità, la quale comunque finisce con il replicare una porzione della realtà, in una schematica e popolana semplicità.
Con il tempo al contrario si è ritenuto che lo stereotipo fosse, o meglio dovesse essere, del tutto destituito di fondamento e che esso fosse solo un dispositivo di reiterazione della discriminazione sociale, o sessuale, o razziale. E proprio così facendo si cade preda di una nuova forma di scienza sociale decostruzionista, dalla metodologia incerta, infarcita di ideologia, che inizia a minare le fondamenta della nostra società occidentale, senza però premurarsi, dopo aver innervato elementi destruens, di fornire una chiave di ricostruzione di un modello alternativo.
Mansfield, in realtà, ne ha anche per l’applicazione alla teoria sociale del darwinismo; la virilità, come insieme di caratterizzazioni ascrivibili al comportamento e all’essenza dell’uomo, mal si concilia con la visione monca e distorta che il darwinismo finisce con il rimandare.
Si tratta di una analisi accurata e raffinata del darwinismo, funzionale a sgomberare il campo dalla principale accusa delle femministe e del politicamente corretto all’uomo: se l’uomo rimane virile, quindi non neutro come ambirebbe lo sdilinquimento attuale, sarà propenso e incline all’esercizio della violenza. Contro i suoi simili e contro le donne. Per questo, la lezione di Mansfield si dimostra assai preziosa, proprio per scardinare un pregiudizio del genere.
Il libro, in generale, è una ampia disamina di filosofia con non episodiche incursioni nel campo della cultura popolare, ampiamente godibile per estro, brio e stile di scrittura: ed è così che a fronte di Socrate, Platone, Hobbes, Spinoza, Mill, troviamo anche John Wayne, Superman ed esempi di virilità presi dalla letteratura, in una parabola oscillante da Robert Louis Stevenson a H. Rider Haggard.
Di ogni autore, Mansfield verifica il concetto stesso formulato ed utilizzato di virilità, constatando amaramente come lo stesso sia stato strumentalmente inquinato da una certa vulgata femminista, a cui l’autore dedica un intero capitolo, significativamente titolato ‘nichilsmo femminile’.
C’è un altro aspetto che mi preme sottolineare: la stretta connessione tra la virilità e la libertà. Mansfield fa infatti giustizia di un luogo comune che vedrebbe nel diffondersi dei principi del liberalismo la causa primaria dell’arretramento, fino quasi alla scomparsa, della virilità dall’orizzonte delle idee e dei concetti nella società d’occidente.
Nel capitolo ‘il liberale virile’, lo studioso ripercorre alcuni dei principali equivoci concettuali che hanno punteggiato lo sviluppo del pensiero filosofico: ed è così che ci troviamo al cospetto di un Hobbes che piega la virilità a funzione della sovranità per la costruzione della compagine statale, capace di porre fine all’arbitrio della guerra di tutti contro tutti.
Il Leviatano di Hobbes, simbolicamente, incarna le fattezze di un uomo, finendo per sublimare le virtù virili dei cittadini che si consociano in un patto di reciproca rinuncia: in questa prospettiva pertanto l’unica virilità accettabile diviene quella collettiva, impersonata dallo Stato. E proprio in questa medesima prospettiva, ma molto prima, già Platone aveva edulcorato il senso profondo della virilità relegandola a funzione di sorveglianza, morale ed effettiva, della città, facendo degli uomini virili i filosofi custodi spogliati della istintiva e ferina virilità.
Qui Mansfield si confronta con Spinoza e John Locke, il primo incapace di applicare convincentemente i principi di libertà senza cadere in stereotipi di genere e finendo col postulare i diritti quasi esclusivamente in capo ai soli uomini, il secondo invece in grado di traslare una parte della virilità presente nello stato di natura in seno al consesso sociale organizzato, rendendola viva e presente in latenza, sorta di motore invisibile.
L’autore chiude quindi il capitolo focalizzandosi su John Stuart Mill e su Edmund Burke, facendo giustizia di tutta quella oleografia che della virilità ha preteso di fare canone belluino, selvaggio, fisiologicamente votato alla guerra e al conflitto.
Perché l’uomo de-virilizzato, che tanto sembra piacere a femminismo radicale, politicamente corretto e decostruzionismo postmodernista, non è destinato alla quiete e alla pace, ma a un senso immane di frustrazione e ad accumulare un carsico, ctonio fiume di violenza inespressa che col passare del tempo rischia di deflagrare, travolgendo tutto.