Questo saggio ripercorre una vicenda intellettuale che va dalla crisi della democrazia liberale sfociata nella dittatura fascista fino alle riflessioni di Norberto Bobbio sulle nuove risposte che il liberalismo è chiamato a dare alla società contemporanea, così profondamente mutata rispetto al recente passato. Il libro prende in esame una tradizione di pensiero che si divarica in due filoni: quello di una democrazia matura e riformatrice tesa a razionalizzare la società capitalistica senza spegnerne l’intima creatività, e quello di una prospettiva più marcatamente liberalsocialista che sente il problema dell’eguaglianza come indissolubile da quello della libertà. La postfazione di Dino Cofrancesco è quasi una controstoria rispetto a quella dell’autore e apre lo spazio per una proficua discussione sulla ricostruzione storica di Bonetti.
Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio
Dalla crisi della democrazia liberale sfociata nella dittatura fascista fino alle nuove risposte che il liberalismo è chiamato a dare alla società contemporanea
Postfazione di Dino Cofrancesco
Pagine 228
ISBN 9788898094196
Prima edizione 2014
Seconda ristampa 2015
Il prezzo originale era: 16,00 €.15,20 €Il prezzo attuale è: 15,20 €.
Può esistere un liberalismo di sinistra? di Corrado Ocone, «Il Garantista», 13 gennaio 2015
È un capitolo di storia del pensiero politico italiano quello che ci offre ora Paolo Bonetti, già professore di filosofia morale a Cassino e di Bioetica a Urbino. Ed è ben fatto, accurato, chiaro e ben scritto. Ma è anche simpatetico (fin troppo) verso l’oggetto di studio. Lo pubblica l’editore Liberilibri di Macerata con il titolo di Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio (postfazione di Dino Cofrancesco, pagine 220, euro 16). Gli autori passati in rassegna sono, oltre i due del sottotitolo: Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli, Guido Calogero, Aldo Capitini. E poi: il Partito d’Azione, “Il Mondo”, i liberali del PLI, fino ai radicali di Marco Pannella. Che gli autori e i momenti della storia delle dottrine politiche qui esaminati abbiano un “filo rosso” non c’è dubbio, se ci atteniamo all’interpretazione che correntemente di essi si dà. E secondo l’autonarrazione che gli epigoni di questa tradizione ne hanno data. Che però la dizione, anche essa comune, di “liberalismo di sinistra” sia corretta o la migliore, è tutto da vedere. Sia da un punto di vista teorico, sia per quel concerne la sua applicazione alla fattispecie qui esaminata. Prima di tutto io non identificherei, come Bonetti fa, le due espressioni “liberalismo di sinistra” e “sinistra liberale”. Che la sinistra possa essere, come la destra ma anche come la democrazia, il socialismo, il conservatissimo o altro ancora, liberale o non, è assodato: si può accettare o no il metodo e il fine della “società aperta”, e questo è già un discrimine più importante di quello che corre fra destra e sinistra. Come diceva Croce, il liberalismo è, perciò, metapolitico. Non capisco, francamente, perché Dino Cofrancesco, autore di una postfazione critica al libro, abbia in uggia la metapoliticità, identificandola a torto con la concezione moralistica della politica. Ma ciò in Croce, che ha usato per primo l’espressione, assolutamente non è. Se vogliamo scansare gli equivoci, diciamo così: il liberalismo è filosofico, è una filosofia (anzi, per il sottoscritto, è la filosofia, ma è un altro discorso). Se ci spostiamo sul terreno filosofico, come è d’uopo, abbiamo primo di tutto un’altra conferma della non rilevanza della distinzione fra destra e sinistra. E quindi del carattere ossimori o dell’espressione “liberalismo di sinistra”, una sorta di ircocervicache mette insieme la filosofia e la politica. Ma poi capiamo con facilità che La differenza essenziale fra i liberalismi, la distinzione che deve compiersi fra di essi, e che comunque è quella che trovo più interessante, è quella segnata dal discrimine che separa un liberalismo non fondazionistico (“senza teoria”), storicistico e pragmatico, da un liberalismo, che poi tale non è o non è in modo compiuto, che cerca invece nella “teoria”, casomai in quell’altro ossimorico progetto che si chiama “”filosofia politica”” (giustamente tanto inviso a quel grande esponente del “liberalismo senza teoria” che risponde al nome di Michael Oakeshott), le linee direttive e le norme per l’azione liberale. Parlare di un liberalismo di sinistra (o di uno di destra) significa per me far discendere il liberalismo, che è una filosofia, e quindi per forza di cose metapolitico, al livello appunto di una ideologia politica fra le altre. Ma, così poste le cose, la domanda da farsi è la seguente: gli autori della tradizione italiana, ammesso e non concesso che appartengano alla famiglia liberale, sono fondazionisti o storicisti? A tutta prima sembrerebbe che non siano fondazionisti, ma, scavando o andando in profondità, le cose cambiano alquanto. Al centro dell’analisi di Bonetti, minimo comun denominatore di questa tradizione italiana, è il concetto di “libertà liberatrice”, a lui caro tanto quanto è inviso a Cofrancesco. Ecco come l’autore la definisce: “una concezione della libertà che non si chiude mai nella difesa delle istituzioni liberali così come si presentano in un determinato momento storico, ma mira a rinnovarle sotto la spinta di nuovi bisogni sociali e di nuove forme di vita comunitaria. Una libertà, insomma, espansiva ed inclusiva, che rifiuta di essere la semplice apologia dell’ordine liberale dato, ma vuole continuamente rinnovarlo per impedire che diventi il semplice tutore di ceti e gruppi variamente privilegiati”. In questa definizione, si coglie, a mio avviso, tutta l’ambiguità della tradizione italiana. Da una parte, c’è l’esigenza storicistica e liberale, condivisibilissima, di mettere sempre in discussione ogni cosa. Dall’altra c’è, non condivisibile e non liberale, l’idea che comunque il percorso delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, a cui il liberalismo deve adeguarsi, è già tutto segnato: sempre più inclusione, sempre nuovi diritti, il diritto di avere tanti diritti e soprattutto sociali. Siamo sicuri che sia liberale questa impostazione, o meglio pregiudizio? Dove è quel sano scetticismo, mi verrebbe da dire ancora una volta oakeshottiano, che deve essere esercitato verso tutti e tutto? Faccio un esempio pratico: se una conquista sociale diventa privilegio, bisogna darla comunque per acquisita e andare avanti o è liberale tornare indietro? Al fondo di molta parte della tradizione italiana c’è poi un’esigenza di razionalizzazione e di paternalismo elitario o pedagogismo (“educare le masse”) che, anch’essa, non è assolutamente liberale. Ciò che comunque credo opportuno incominciare a fare è avere il coraggio di uscire dalle interpretazioni date, cominciando a distinguere di più fra i singoli autori. Ed anche a segnare con più nettezza la differenza fra pensatori vissuti nel dopoguerra, e partecipi a vario titolo di un clima culturale antifascista ma non anticomunista, da “ideologia italiana”, e autori come Croce, Gobetti o Rosselli, immersi in altri tipi di problemi. Eccezion fatta per Croce, bisogna poi cominciare ad avere il coraggio di dirci che comunque gli autori della nostra tradizione non reggono al confronto con i maestri della grande tradizione europea del pensiero politico e anche di quello liberale. Senza con questo nulla togliere, in utilità, al profilo storico di cui qui si è parlato.
Ecco il peccato originale della sinistra liberale di Giancristiano Desiderio, «il Giornale», 25 gennaio 2015, pag. 20
Sono famosi – giustamente famosi – i giudizi che Benedetto Croce espresse sull’astrattezza e inconcludenza del Partito d’Azione. Considerando la volontà degli azionisti di conciliare l’inconciliabile, Croce definì il Pd’A un ircocervo ossia un animale inesistente.
Un’altra volta valutandone l’incapacità politica di agire disse: «Gli azionisti non sanno cosa vogliono ma lo vogliono subito». Il filosofo fu molto paziente con gli azionisti ma ci fu un momento in cui sbottò. Fu nell’aprile del ’44, quando si stava passando dal primo al secondo governo Badoglio, da un esecutivo regio a uno politico: in gioco c’era l’abdicazione del re e la «continuità dello Stato». Tutto, secondo i buoni auspici di Croce che da filosofo si fece politico, andava per il verso giusto, quando il Pd’A con la sua «mistica della purezza», chiese a Croce di assumere direttamente la presidenza del Consiglio al posto di Badoglio. A quel punto Croce, da buon filosofo, perse la calma, e ad Adolfo Omodeo, Alberto Tarchiani e al suo stesso genero Raimondo Craveri gliene cantò quattro e cosi annotò nei suoi Taccuini: «Ho respinto l’offerta dicendo tutto quanto si poteva dire, e credo che alla fine sono trasceso nelle mie parole, gridando che preferivo macchiarmi d’impurità pur di mettere insieme un ministero, anziché restare statua di purità accanto alle purissime statue di marmo del Partito d’azione, perché quel che qui si giocava, era la serietà dell’Italia». Nei giudizi di Croce si vede già tutto il destino di quel partito di intellettuali e professori che nacque dall’unione del gruppo di Giustizia e Libertà con i rappresentanti liberalsocialisti: niente fu più inadatto all’azione come il Partito d’Azione. Ora Paolo Bonetti con il libro Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio, edito da Liberilibri, racconta con maestria proprio quel destino che andò incontro a una storia di fallimenti.
Bonetti, che ha una concezione crociana del liberalismo e, direi, della stessa condizione umana, non ricostruisce per filo e per segno la storia del Pd’A – perché non è questo il suo scopo – ma dedica il lavoro alla individuazione del pensiero e dell’azione di un liberalismo di sinistra o di una sinistra liberale «che non può essere confusa con quella marxista, comunista o socialista». Si tratta di un universo o, meglio, un arcipelago in cui Bonetti fa rientrare il socialismo liberale di Carlo Rosselli e il liberalsocialismo di Guido Calogero e Aldo Capitini, la democrazia repubblicana di Ugo La Malfa, il gruppo del Mondo di Mario Pannunzio, il primo Partito radicale e «taluni aspetti del radicalismo pannelliano». Un’intera tradizione liberale riformatrice che trova nel costituzionalismo e riformismo di Norberto Bobbio la sua sintesi e, forse – se Bonetti mi fa passare il giudizio – anche la sua fine. Non a caso il giudizio più implacabile sull’azionismo è di Bobbio: «Gli intellettuali del Pd’A non avevano alcuna conoscenza della società civile. Non capivano ciò che nasce spontaneamente dall’homo oeconomicus. Comunisti e socialisti, in parte anche gli azionisti, credevano invece all’economia di piano, mentre in Italia è avvenuto qualcosa di sorprendente che ancora adesso abbiamo sotto gli occhi: si formò sin d’allora e si sviluppò rapidamente in seguito un tessuto di piccole imprese che nascono per puro interesse economico». In questa storia, però, il Pd’A, anche se ebbe vita breve, riuscì a dettare le regole del gioco e alla sinistra liberale diede il suo stesso timbro che è poi il suo vizio d’origine: la pretesa di fondare teoreticamente la politica. È in questo moralismo di fondo o in questa «mistica della purezza» che la sinistra liberale corre sempre il rischio di trasformarsi in sinistra illiberale e scivolare nel giacobinismo (come è avvenuto puntualmente nel ventennio berlusconiano).
La ricostruzione segue due linee: una è quella Gobetti-Rosselli-Calogero che mettendo insieme liberalismo e socialismo – l’ircocervo – vorrebbe mantenere il costituzionalismo liberale e rivoltare come un calzino economia e società al limite del comunismo; l’altra è quella Amendola-La Malfa- Il Mondo che conserva il capitalismo liberale e aspira a riformarlo qua e là secondo casi, forze e possibilità. Un po’ scherzando e un po’ forzando potremmo dire che ci troviamo di fronte alla sinistra e alla destra di Croce e Paolo Bonetti, da par suo, nell’ambito del liberalismo di sinistra siede alla destra del padre. Il libro, infatti, non è solo la ricognizione delle idee politiche liberalsocialiste e liberaldemocratiche ma anche una lettura della storia politica dell’Italia repubblicana in cui a più riprese l’autore si chiede perché non si sia mai riusciti a dar corpo a quel partito liberale dei ceti medi che già Giovanni Amendola aveva indicato come obiettivo necessario da perseguire per rinnovare il liberalismo italiano. In particolare, Bonetti si pone questo interrogativo nelle pagine più riuscite del libro che sono dedicate alle battaglie del Mondo di Pannunzio che pur esprimendo, al contrario dello spirito azionista, una fede tanto antifascista quanto anticomunista, non ebbe di certo l’occasione di creare una forza politica borghese come vagheggiata da Amendola e dovette accontentarsi «con risultati sempre deludenti» del centro-sinistra.
A conclusione del libro di Paolo Bonetti c’è una sorpresa: la postfazione che Dino Cofrancesco ha scritto – come dice lui stesso – pensando a Vincenzo Cuoco. È un contraltare o una controstoria della Breve storia del liberalismo di sinistra giacché Confrancesco individua nell’autore del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 «la vera genesi del liberalismo napoletano» e l’antidoto del giacobinismo e di ogni intellettualismo perché capovolge l’assunto azionista che ragiona come quel calzolaio che avendo fatto al suo cliente delle scarpe più corte del piede pretendeva accorciare il piede piuttosto che fare delle buone scarpe. Visto il buon risultato del libro, diamo all’editore un consiglio: far scrivere a Dino Cofrancesco una Breve storia del liberalismo di destra che avrà una postfazione di Paolo Bonetti scritta pensando a Benedetto Croce.
Non moriremo liberali e laici di Giulio Azzolini, «La Repubblica», 15 febbraio 2015, pag. 46
Breve storia del liberalismo di sinistra di Paolo Bonetti Liberilibri, pagg. 228, euro 16
Nobile e decaduta. È la sinistra liberale e laica in Italia, oggi che la sua beffarda storia appare del tutto consumata. Scampato il rischio di soffocare nella morsa cattolico-comunista, sperava che gli anni Novanta avrebbero finalmente schiuso il suo momento, invece no, perché proprio allora si è imposta la sua caricatura.
Ma il tragicomico epilogo del fronte liberale progressista e laico, sostiene Paolo Bonetti con una ricostruzione lucida e appassionata, non fu l’effetto di un crudele destino. Senza troppe indulgenze, l’autore ripercorre infatti le vicende di una sinistra minuta e litigiosa che, nonostante la devozione verso il realismo politico crociano e al di là di velleità strategiche e opportunismi tattici, ha finito per pagare un’incertezza culturale: quella tra il liberalsocialismo di Rosselli, Calogero e Capitini e la liberaldemocrazia di Amendola, La Malfa e Pannunzio. È dunque sicuro che non moriremo liberali, né socialisti né democratici, ma i problemi che quella sinistra indicò, lottando per uno Stato più moderno e più democratico, attendono ancora una risposta complessiva.
Minoranze laiche sconfitte con onore di Antonio Carioti, «Corriere della Sera», 17 febbraio 2015, pag.37
Prevale il pessimismo nelle pagine finali della Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio (Liberilibri, pagine 217, e 16), in cui Paolo Bonetti ha riassunto con sapienza e passione le vicende dell’antifascismo laico che cercò di coniugare difesa dei diritti individuali e apertura alle istanze sociali. Ne risulta un Pantheon di padri nobili molto variegato, in cui l’autore colloca anche figure tutto sommato più prossime al socialismo democratico (Carlo Rosselli, Guido Calogero, lo stesso Norberto Bobbio) che al liberalismo vero e proprio. Ma tutti, da Piero Gobetti a Mario Pannunzio passando per Giovanni Amendola (che molto di sinistra in realtà non era), finirono sconfitti, sia pure con onore, nel tentativo coraggioso di tradurre le loro idee in azione politica. Del resto ormai si tratta di filoni culturali consegnati alla storia, oggi privi di eredi credibili, per cui stupisce che il Partito d’Azione — realtà effimera ed altamente eterogenea, sparita da quasi 70 anni — continui ad attirarsi strali acuminati come quelli che Dino Cofrancesco, esagerando un po’, gli rivolge nella postfazione, una sorta di cortese controcanto critico, che conclude il saggio di Bonetti.
Divisi in famiglia di Guido Vitiello, «IL Il Sole 24 Ore», 21 febbraio 2015
«I Tories mi chiamano Whig, e i Whigs Tory». L’antico verso di Alexander Pope sembra scritto per consolare quegli infelici che, in Italia, si ostinano a definirsi liberali di sinistra. Oggi, le cose sono più facili, ma per tutto l’arco della Prima Repubblica i rampolli di questa strana famiglia – dal Partito d’Azione agli Amici del Mondo al Partito Radicale – hanno penato molto a farsi riconoscere un posto sulla mappa politica. Visti da sinistra erano a destra, visti da destra erano a sinistra, eppure non erano al centro: bel rompicapo da Settimana Enigmistica. C’è da dire che un po’ se la sono cercata. La formula signorile con cui Pannunzio riassumeva l’ispirazione del Mondo – «Progressisti in politica, conservatori in economia, reazionari nel costume» – non aiutava granché a far chiarezza.
Aggiungiamo una certa litigiosità endemica del liberalismo italiano, a destra come a sinistra: la vecchia battuta secondo cui i liberali possono convocare il loro congresso in una cabina telefonica va emendata dicendo che, una volta là dentro, la prima cosa che fanno è prendersi a cazzotti per dissensi inconciliabili sulla disputa Croce-Einaudi o sulla valutazione storica di Giolitti. E se si azzuffano in una cabina telefonica, possono farlo anche tra le copertine di un libro. Breve storia del liberalismo di sinistra (Liberilibri) dà l’occasione di assistere a un’adorabile lite condominiale tra l’autore, Paolo Bonetti, e il postfatore, Dino Cofrancesco. Bonetti compone con dottrina ed eleganza un magnifico ritratto di famiglia, da Gobetti a Bobbio. Cofrancesco lo smonta punto per punto, riaprendo con l’occasione l’eterna querelle sull’azionismo. Storia e controstoria in un solo volume: il duello, cavalleresco e generoso, è da applausi.
Da liberale apolide, come tanti nella Seconda Repubblica, mi sono sentito finalmente a casa. Ma una casa divisa in se stessa non può reggersi, dicono i Vangeli, e così mi è tornato in mente, con un brivido, un Maurizio Costanzo Show di molti anni fa. Era un «uno contro tutti» di Marco Pannella, e tra i tutti c’era Bruno Zevi, allora presidente del Partito Radicale. Quando venne il suo turno, Zevi fu feroce: ma insomma, disse a Pannella, ci vuoi dire chi cavolo siamo? E prese a elencare le innumerevoli sigle della galassia radicale. Lo spettatore medio doveva già essere piuttosto disorientato da quella litania, sennonché Zevi, rosso come un peperone, prese a inneggiare a un’altra sigla ancora, estinta da mezzo secolo: «Viva il Partito d’Azione!».